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PRIMO GIORNO DI SCUOLA

Primo giorno di scuola. 

Appello. Soliti convenevoli. La rottura delle presentazioni. 

Per fortuna sono l’ultima della lista e conosco già molti dei miei compagni. Potrò quindi sonnecchiare per quasi tutta l’ora e poi, con tutto il fascino di cui sono capace, sbattendo gli occhi due e tre volte per conquistarmi anche la prof, farò la mia presentazione, dirò che amo gli animali, i cani e gatti in modo particolare, poi la TV e la danza, e concluderò dicendo che da grande voglio diventare una veterinaria. Sì, una veterinaria. Un lavoro che mi permetterà di curare ogni tipo di animale, specie quelli domestici, vale a dire quelle povere bestiole a quattro zampe, quei simpatici sacchetti di pulci che si saranno ammalati a causa del troppo cibo in scatola che i loro proprietari gli avranno propinato per assicurarsi la loro obbedienza, la loro fedeltà, il loro Amore – come se quelle bestiacce provassero qualcosa! – e permettere così a loro, ai loro premurosi e patetici proprietari, di partecipare alla sfilata di bellezza per piccoli felini addomesticati organizzata dal Comitato di Zona o alla Gara Regionale di agilità che premia il migliore tra i migliori amici dell’uomo, e per vincerla, così che essi, gli ammirevoli e ammirabili proprietari di animali domestici, potranno aver qualcosa di cui vantarsi quando si incontreranno per calcolato caso con i vicini, far provare loro l’invidia che meritano, visto che il loro animale è il più bello, il più curato, il più agile o il più ubbidiente del quartiere, per poi congedarsi con cordiale e falso rispetto ed ostentata educazione. Già li vedo, i vincitori, rivolgersi tra di loro confidandosi ogni genere di cattiveria, di velenosa supposizione o di perfida infondata diceria riguardante il vicinato appena salutato. 

Che gente inutile e ipocrita. Che pena che mi fanno… 

Comunque sì, ho deciso: sarò una veterinaria. Così farò una bella figura con la classe (chi non ama gli animali!) e magari guadagnerò punti anche con la nuova professoressa – la Sig.na Michelin da quanto si legge sulla lavagna – facendole credere che continuerò gli studi fino all’Università e forse oltre, quando in realtà il mio piano è quello di scappare con mia madre finite queste merdose scuole dell’obbligo di questa altrettanto merdosa periferia e raggiungere mio padre in America. 

 

Intanto i cognomi con la G sono finiti. Ora senza dubbio toccherà a quello stupido di Jimmy Handerson, l’unico stupido ragazzino che può avere un cognome così stupido da iniziare con una lettera muta. Ci scommetto: toccherà a lui. E non mancherà di certo l’occasione per farsi quattro risate. 

Eccolo infatti, il grasso, scaccoloso Giacomo Jimmy Handerson che si alza e si mostra alla classe nel suo stupido vestito firmato con in mano il suo stupido smartphone di ultima generazione, dando così il via all’ennesima sua prova di goffaggine e stupidità.

 

Presentazione fatta, compiuta. Un totale disastro, anche se quest’anno le risate degli altri alunni non ci sono state. Il punto più alto della sua imbarazzante performance è stato quando, orgoglioso di sé, ha detto che da grande farà l’astronauta. Come se l’umanità riuscirà mai costruire una qualche navicella del cavolo capace di far decollare quel suo culone grasso e flaccido. Che pena che mi fa… 

Sentiamo cosa ha da dire la Prof. Finora, dopo ogni presentazione, ha sempre speso due parole di curiosità e di incoraggiamento rivolte all’alunno di turno. Lo farà anche per quello stupido ciccione? Certo. Eccola che dice che «ci si deve impegnare tanto per poter “viaggiare nello spazio”…» (parole del povero Jimmy Handerson), «E in tutte le materie poi! Educazione fisica compresa…».

Ganza però la Prof. È riuscita anche a strappare alla classe le risate che mancavano, restando comunque amorevole e fiduciosa. 

 

L’ho già capita la Michelin. È giovane, è vero, e il suo carattere sembra abbastanza energico e positivo – tipico per i novelli insegnanti. Scommetto però che in pochi anni perderà tutta la fiducia che sembra avere nei nostri confronti, cioè nella «futura classe dirigente» (parole de Ministro dell’Istruzione); che diventerà fredda e dura; che inizierà a bere per poter sopportare di essere rimasta sola proprio a causa di quel suo incarico così importante «per il futuro della nostra Nazione» (ancora parole del Ministro); che infine continuerà il suo lavoro per inerzia, auto-ingannandosi ogni giorno di nuovo circa la sua funzione didattica fino al momento in cui, ottenuta la pensione statale, si renderà conto di non saper cosa fare da persona priva di impiego.

E poi sembra una persona molto schematica, la Michelin. Lo si vede da come tiene penne e matite: tutte in fila perpendicolari al lato lungo della cattedra. Il registro poi è esattamente al centro del piano. Sono sicura che sarebbe davvero facile farla scoppiare, in lacrime anche; facile come disorganizzare quell’ordine discreto e patetico che tiene sulla cattedra. 

Aspetterò domani o domani l’altro per questo. Ora sembra che tocchi quasi a me.

Ripasso il piano. «Sono Amanda Zanni, ho 13 anni e amo la danza e guardare la TV. Ma soprattutto amo gli animali, i cani e i gatti in particolare, ed è per questo che da grande diventerò una brava veterinaria.» 

Mi giro a destra e a sinistra, sorrido, sbatto gli occhi alla Prof. Fatto! Certo un po’ corto ma in sostanza popolare e adatto ad una ragazzina della mia età. Brava Amanda! Ora puoi sederti e sentire quale fandonia dirà la Professoressa.

– E che tipo di danza ti piace, Amanda?

La stupida non c’è cascata. Il suo tono è di sfida, non di incoraggiamento. Non è poi così stupida a quanto pare… Bene! Sfida accettata!: rispondere alle sue insinuazioni dicendo «nulla in particolare Professoressa. Amo danzare davanti allo specchio mentre ascolto la musica del Canale Musicale.»

Risate. Risate! Tutti, perfino Jimmy Handerson, ridono. Ma cosa avrei dovuto dire? Non conosco nulla della danza e credevo fosse questo quello che fanno le mie coetanee quando dicono che amano ballare. Evidentemente non le conosco abbastanza. O forse sono sì cose che fanno, ma sono anche cose che non dicono in pubblico. Sì, certo! È così: le loro risatine fanno trasparire una sfumatura di imbarazzo, come se io le avessi messe tutte a nudo. Però, che figura! Tutti che ridono di me, anche se non si rendono conto che è di loro stessi e della loro ridicolezza che stanno ridendo. 

Sorrido dolcemente imbarazzata e spero che la Prof non mi chieda altro…

– E che musica ti piace, Amanda?

Merda! Di nuovo quel tono. Ma è un interrogatorio questo?

Temporeggio. Dico qualche «mmm» smaliziato con lo sguardo un po’ vago, come se stessi cercando la risposta da qualche parte là in alto…

Per mia fortuna bussano alla porta. Mancano 5 minuti alla fine della lezione e credo proprio che non ci sarà più tempo per la mia risposta.

– Avanti!

Merda! Mia madre!!

– Buongiorno. Sono la mamma di Amanda.

– Ah, bene! Sua figlia ha appena terminato di presentarsi. Giusto in tempo per farci sapere che da grande vuole fare la veterinaria! Bellissima professione e bellissimo obiettivo. Si vede che ha un imprinting votato allo studio e un’educazione che non trascura il lato più umano delle cose.

– Cosa? Chi? Amanda?! Guardi… la veterinaria proprio no! È allergica più o meno ad ogni essere vivente, animali, insetti, piante, e anche con gli esseri umani non sembra che le cose vadano benissimo, vero Amanda?

Mi guarda con fare minaccioso ma anche con una chiara sfumatura di fretta, come se volesse sbrigare quella pratica nel modo più veloce possibile, non evitandomi la figuraccia, certo, ma senza perdere del tempo prezioso.

Ma prezioso per cosa?

– Ma mamma!!! – mi lamento io, tra le risate dell’intera classe.

– Ma allora perché mi hai detto di amare gli animali, Amanda? – incalza la Professoressa, guardandomi fissa negli occhi.

– È perché li ama davvero – interrompe mia madre – Li ama così tanto che ha deciso di non avvicinarsi mai a loro. Per evitare brutte sorprese, si intende… Ed ora, se non le dispiace, devo portare Amanda dal… dal… dal dottore… Sì! Dal dottore. Per… per la terapia contro le allergie da pelo di animale, appunto! Grazie mille per la sua pazienza Professoressa. Domani vedrà che Amanda starà benissimo. Arrivederci! – e già chiudeva la porta dietro di sé. Io intanto, che avevo intuito l’intenzione di mia madre anche se non ne capivo il motivo, avevo già fatto il mio zaino e, precedendola sul corridoio, riuscivo a fuggire da una situazione complicata, sicura di entrarne in una peggiore.

– Aspetti! Deve firmare il modulo per l’uscita anticipata…

– Non si preoccupi Signora Professoressa – risponde mia madre chiudendo la porta – Lo firmi Lei. Tanto avremo sicuramente modo per conoscerci meglio.

 

∗∗∗

– Ma mamma, che succede?

– Niente Amy. Solo che stiamo per diventare milionarie.

 

2

IN VIAGGIO CON MIA MADRE

 

La nostra macchina era parcheggiata proprio davanti al cancello d’entrata della scuola. (Tipico di mia madre). 

Vicino ad essa, un ausiliario del traffico – uno di quelle migliaia di precari che lavorano una stagione sì e una no, titubanti e servili con i loro superiori e sempre e comunque riconoscenti verso la Cooperativa che ogni tanto li fa lavorare – gironzolava attorno alla nostra auto con uno sguardo che mi parve incredulo.   

Chissà quanto tempo era che aspettava in quel posto e perché non si era ancora deciso a scrivere il verbale e ad andarsene. Cosa lo aveva frenato dal multare la nostra macchina? 

Strana decisione quella di attendere – pensai – e rischiosa, oltre che per lui controproducente. Infatti, non solo non multando la macchina avrebbe perso la percentuale sulla multa che veniva assegnata a chi, come lui, faceva quel lavoro – piccolo riconoscimento economico per un lavoro precario e mal pagato – ma, nel caso avesse voluto attendere il proprietario dell’autovettura, magari per fargli una bella strigliata, avrebbe anche rischiato di incappare in qualche pazzo col quale si sarebbe dovuto mettere a litigare. Non riuscivo proprio a comprendere il motivo di quel suo atteggiamento. Cosa vedeva in quella macchina? Cosa lo frenava dal multarla? Era magari compassione per un destino che immaginava come simile al suo? Cioè perché riconosceva in quella vecchia macchina scarcassata anche la sua macchina, cioè la sua situazione economica e il suo mondo quotidiano, fatto di fatica, precarietà e bocconi amari? Era dunque questa ipotetica solidarietà che lo stava frenando dallo scrivere il verbale? Era dunque il suo buon animo da ausiliario stagionale che l’aveva portato ad attendere? O c’era dell’altro?

C’era comunque qualcosa di strano nell’atteggiamento del vigilante. Ad ogni giro attorno all’autovettura il suo sguardo indugiava sempre un po’ sul lato sinistro posteriore del veicolo, più o meno all’altezza del bocchettone del serbatoio della benzina. 

Più mi avvicinavo più lo vedevo impaziente e disorientato. Anche mia madre supposi lo vedesse così. 

 

Eravamo a circa 6 passi da lui quando ella capì che era il momento giusto per sfruttare quell’atteggiamento di apparente debolezza e, con voce acuta e gentile, non priva però di una certa sfacciataggine, gli si rivolse così:

– Signor Vigile! Signore! È mia la macchina. La tolgo subito se dà fastidio, ma la prego non mi multi…

L’uomo, che in quel momento stava di nuovo osservando il bocchettone, alzò lo sguardo e, vedendoci arrivare, fu come preso alla sprovvista, quasi fosse stato sorpreso a fare qualcosa che non doveva.

– Signora, se la macchina è la sua non vedo come io possa non multarla. – Si riprese, rivestendo di nuovo il ruolo richiesto ai vigilanti stagionali con annesso atteggiamento intransigente. Mia madre, che supponevo avesse un piano, si apprestò a raggiungere l’uomo e, con un’espressione dispiaciuta da cittadina-modello costretta dalle circostanze a commettere quell’infrazione al Codice della Strada, con comprensione e rassegnata pacatezza esordì così: «Faccia pure quello che deve. Ho commesso un grave errore. Ho infranto la Legge e per questo devo pagare». Proseguì quindi inventando quello che doveva essere il motivo della sua ignobile infrazione: «A mia discolpa posso solo dire che l’ho fatto per una buona causa. Ho parcheggiato così, di fretta e furia, dove sono riuscita a trovare posto, solo perché mia figlia – e mi abbracciò teneramente senza però smettere di guardare negli occhi l’uomo – tra mezz’ora ha un’audizione molto importante all’altro capo della città ed io ho avuto un ritardo sul lavoro, il mio secondo lavoro, quello che faccio per mantenere gli studi di recitazione alla mia Amanda. Sa, tra il ritardo lavorativo e il traffico che a quest’ora è davvero infernale, sono arrivata a scuola con molto ritardo e non ho avuto tempo per cercare posteggio». Ripreso fiato continuò: «Poi, arrivata a scuola, l’insegnante della mia Amy mi ha trattenuta perché voleva farmi partecipe dei bei voti che la mia bambina sta prendendo. Non ce l’ho proprio fatta a tagliare il discorso: ero così orgogliosa di lei!» Altra pausa. «Ma non importa – continuò con fasullo ma credibile senso civico – Faccia quello che deve. Spero solo che riuscirà ad essere veloce nel scrivere il verbale e che poi… Ma… ma… cos’è quel coso?» e con lo sguardo fissò il lato posteriore sinistro della macchina. 

Si riferiva alla cosa che aveva incuriosito il vigilante, ovvero un lungo tubo grigio che usciva dal bocchettone del serbatoio, uno di quei tubi che potevano servire a succhiare via il carburante dal veicolo. «O no no no no! O no no no no! Non mi dica che è successo davvero!» Senza indugiare un attimo sul volto dell’ausiliario del traffico, la cui espressione sembrava confermare la supposizione di mia madre, entrò in macchina, accese il quadro e con un’esclamazione disperata notò di avere il serbatoio quasi a zero. A quel punto finse un attacco d’ansia; poi quasi svenne. Ripresasi, dopo una risatina isterica dal sapore rassegnato, proferì infine la sua amara e definitiva sentenza: «Si vede che non era destino, Amanda. Che non è oggi il nostro giorno. E dire che il direttore artistico ti aveva così elogiato l’altra volta… Vorrà dire che ci riproveremo, dai. Non abbattiamoci.» 

Geniale! Un piano perfetto. Un capolavoro. 

Era lei la vera attrice e quella la sua performance migliore. 

Il vigilante, che aveva assistito al dramma con sincera partecipazione emotiva, ruppe il silenzio che si era creato da qualche attimo con voce calma e rassicurante: «Forza Signora! Non tutto è perduto. C’è un benzinaio proprio a due isolati da qui. Se fa in fretta sono sicuro che riuscirà ad arrivare in tempo all’audizione».

Aveva guadagnato un vantaggio. Non solo non avremmo avuto la multa ma aveva conquistato la sua fiducia. Fu allora che mia madre decise di forzare ulteriormente la mano. Con un sibilo di voce malinconica e guardando dritto negli occhi l’uomo con uno sguardo umido e sinceramente buono tentò l’acrobazia: «Nella fretta ho dimenticato anche la borsa con il portafogli… Che stupida che sono! Non c’è rimedio per una come me.» 

Il resto è leggenda. L’ausiliario che carica 200TK sull’e-Wallet di mia madre. Mia madre che ringrazia in tutte le lingue del mondo, proferendo anche frasi fatte del tipo «meno male che esistono ancora persone come lei» e «l’altruismo salverà il mondo!». L’ausiliario che cerca di evitare i futili convenevoli e che mostra di stare in ansia per noi più di noi. Mia madre che mi bacia, mi ribacia, ringrazia il Cielo più volte e l’ausiliario per l’ultima, poi mette la prima e, decisa, parte. Dallo specchietto vedo l’ausiliario rimasto immobile sul suo posto che continua a salutarci mentre noi ci allontaniamo. In terra, vicino a lui, c’è il tubo grigio, pulito, mai utilizzato, vergine. 

Girammo l’angolo, libere, arricchite, vive. Guardai mia madre con occhi stupefatti e pensai che nonostante tutto ero orgogliosa di essere sua figlia. Poi tornai ironica: «Ma allora anche i milionari utilizzano qualche escamotage per non pagare la benzina?!» Lei mi guardò in maniera complice e, con una determinazione che non le avevo mai visto, mi rispose: «Ancora non lo siamo, Amanda. Ma lo diventeremo presto.»

 

∗∗∗

 

Bene! 

Benzina fatta (occhiolino). 

GPS impostato in precedenza (si mette gli occhiali da sole). 

Scorte alimentari a portata di mano (mangia una patatina). 

Ora possiamo partire. 

 

∗∗∗

 

Non le chiesi dove andavamo. Almeno non subito. 

Vedevo la macchina che prendeva la tangenziale verso fuori città per poi imboccare la bretella autostradale e infine l’autostrada direzione-Nord.

Io rimanevo in silenzio. Mi piaceva quel senso di mistero, il non aver idea di dove stavamo andando, l’aura di avventura che circondava tutto quanto stavamo facendo. Per non disturbare quella magia mi limitai per più o meno due ore a fissare il paesaggio che cambiava dal finestrino. La brutta figura fatta in classe era alle spalle. Magari sarebbe tornata a riproporsi in qualche fastidiosa forma al mio rientro, ma per ora era nel passato ed era lì che doveva stare. Non avevo nessuna intenzione di portare con me carichi emotivi inutili. Gli unici bagagli di cui avevo bisogno erano il mio entusiasmo e il piccolo zaino con tutto il necessario per una breve trasferta che mia madre aveva avuto premura di preparare. Tutto il resto non contava più nulla.

Non avevo mai fatto un viaggio sola con mia madre in un posto lontano. La strada più lunga che di solito percorrevamo insieme era la via che porta al mare, ma per quella un’ora e mezza bastava, traffico compreso. Ora invece stavamo per superare le due ore di viaggio e non c’erano segni che indicassero l’imminente arrivo. Anzi. Il GPS diceva che dovevano percorrere ancora 220Km prima di svoltare a destra. Il paesaggio intanto era cambiato di nuovo e con esso anche l’autostrada, che si era fatta più stretta e con curve sempre più frequenti. 

Le carreggiate, che da tre erano diventate due, erano ora prive del traffico pendolare. Ogni tanto però si formava una colonna di camion, e noi dovevamo metterci sulla corsia di sorpasso e rimanerci per qualche chilometro per superarli tutti. E poco importava che il macchinone di turno, da dietro, ci lampeggiasse perché stavamo intralciando la sua corsa: noi continuavamo il sorpasso senza curarcene, alcune volte anche mandando a quel paese il guidatore che ci faceva pressione. 

Ricordo che la ferrovia, che per un lungo tratto ci aveva affiancato, scomparve con il treno della TAV dentro una grossa collina. Poi i monti, sempre più aspri, sempre più alti, non ancora innevati e calmi come d’inverno, ma verdeggianti, boscosi, perfetti rifugi per animali selvatici e uomini solitari. 

Ricordo di aver visto in lontananza un cervo che brucava su di una parete scoscesa e un’aquila che volteggiava sicura e libera. Ricordo anche che, a causa delle montagne, dovevamo cambiare spesso stazione radiofonica e che, nonostante ciò, mia madre canticchiava tutto ciò che la radio riusciva a captare, jingle pubblicitari compresi. Aveva l’aria felice, sognante. Era totalmente proiettata in un futuro non ancora nostro che però ci avrebbe spalancato le porte per un presente diverso, migliore. La vedevo, assorta sicuramente in pensieri splendidi e non potevo che essere felice per lei, fiduciosa in lei, partecipe di quel suo fantasticare. 

Non volevo rompere quel magico silenzio. Sentivo però salire in me, in maniera sempre più impellente, la curiosità per ciò che ci aspettava. Dovevo sapere il perché di quel lungo viaggio, quale la sua meta, cosa avremmo dovuto fare una volta arrivati. Mentre cercavo il giusto modo per chiederle queste cose, lei, con vivacità ed entusiasmo, mi propose di fermarci al prossimo punto di ristoro. «Ci sono già stata sai… E con tuo padre! Ancora qualche chilometro e ci arriveremo».

 

3

LA ROAD-HOUSE SULL’AUTOSTRADA

La Road-House si trovava in un ampio slargo appena dopo un curvone. Come tutti i punti-ristoro di quella catena, la sua forma era quella di un grande casale di campagna, ma tirato a lucido e pieno di telecamere di sicurezza. Il giallo e blu dell’intonaco, poi, ammetto che invogliava ad entrarci. 

Intelligenti questi esperti di marketing della Società Road-House – pensai -: dopo un lungo viaggio, ciò che ognuno vorrebbe trovare è sì un posto accogliente dove rifocillarsi, ma anche un luogo capace di risvegliare i propri sensi intorpiditi dalle ore passate nell’auto, funzione che i colori e le luci del luogo svolgevano benissimo. L’interno poi era un tripudio di stimoli capace di indurre anche il più morigerato dei signorotti ad un po’ di sano, insensato consumismo. Sfido chiunque si sia fermato in uno di questi ristori disseminati lungo le autostrade del Paese ad ammettere di esservi uscito senza aver acquistato qualcosa di inutile ed eccentrico o senza aver assaggiato un cibo spaccafegato o ultradiabetico.  

Parcheggiando avevo notato poche auto presenti, la maggior parte delle quali probabilmente appartenente ai dipendenti del punto-ristoro. Oltre ad esse c’erano tre grossi tir e un autobus turistico della linea Verde-Arancio, la linea cioè a buon mercato spesso usata dagli anziani per le loro gite organizzate. 

Ad attenderci dentro in effetti c’era proprio una gita di anziani vestiti di tutto punto, chiassosi, euforici, compagnoni. Non ce ne era uno che non avesse su i suoi DigiGlass.

Li vedevo inquadrare con lo sguardo filtrato dalle lenti interconnesse i QR-Object-Code di qualunque cosa alla ricerca di ogni esperienza digitale possibile. 

Erano buffi e maldestri. Nonostante infatti i DigiGlass funzionassero benissimo anche a distanza, li vedevo comunque curvarsi sui QR, avvicinarsi ad essi, poi aspettare in ansia che il contenuto digitale apparisse sulla lente, infine, ogni volta, manifestare stupore e incredulità per l’apparizione. Non importava che mai nessuno di loro avrebbe usufruito dei punti-token per l’acquisto di una canna da pesca o del buono per una degustazione gratuita di un whisky di importazione in un cocktail-bar di tendenza. Ognuno voleva sperimentare le potenzialità del mondo totalmente interconnesso che la Nuova Era Digitale aveva dischiuso per ciascuno di noi. 

Li osservavo nella loro ingenuità, quasi nella loro innocenza. Delle volte chiamavano il vicino invitandolo a provare la pubblicità appena vista. 

Ridevano. Si divertivano. 

Non sembravano però interessati a sperimentare l’interconnessione tra persone. Quasi nessuno aveva messo il proprio QR-Personal-Code e anche chi lo aveva indossato non si preoccupava di instaurare contatti con altri Profili. Di tracce ne lasciavano, certo. Ma non si curavano in alcun modo di ottenere la conferma da parte di altri soggetti. Cosa che mia madre, stranamente, stava facendo. 

Già prima di entrare, di fronte alla telecamera a riconoscimento facciale dell’entrata non solo si era fermata guardando dritta dentro l’obiettivo, ma aveva anche deciso di loggarsi con il suo Personal-QR. Una volta entrate poi, la vedevo che stava cercando il contatto con qualche altro visitatore del punto-ristoro. Senza troppa fortuna in effetti. Tra gli anziani che erano come ipnotizzati dalle funzionalità dei loro DigiGlass e i camionisti assuefatti da tutto quel bombardamento pubblicitario e stufi di stabilire nuovi contatti con gente mai vista prima, mia madre non era ancora riuscita a stabilire alcuna conferma. 

Giravamo per gli scaffali del market rigonfi di prodotti colorati quando eccola, una signorotta sulla sessantina con ben in mostra il suo QR personale e con tutta l’aria di cercare nuovi contatti. La vidi appena girata la corsia, davanti allo scaffale delle riviste di gossip, che cianciava ogni genere di cose con altre due sue compagne di gita, in verità poco interessate ai suoi pettegolezzi e più propense a leggere le anteprime degli articoli che le riviste offrivano gratuitamente. Appena la vidi già sapevo che mia madre avrebbe trovato il modo di entrare in contatto con lei. Da come iniziò la conversazione, poi, sono sicura che era già da un po’ che le stava dietro. Non è possibile infatti scontrarsi casualmente con una persona, chiedere gentilmente scusa per la sbadataggine e subito dopo, in appena qualche secondo, apprezzare quale bellissima borsetta aveva scelto per la sua mise blu e oro. 

– … ed è sicuramente di marca poi!!!

– No, no… – rispose la signorotta, forse arrossendo, sicuramente gonfiando il petto d’orgoglio – Me la sono fatta io da sola prendendo spunto da una borsa dell’Alta Moda…! Sa, io so cucire, fare a maglia, persino ricamare! Vede?! – e mostrò a mia madre delle lettere ricamate sul taschino della giacca del suo tailleur blu, proprio sotto al suo Personal-QR – Le piacciono?

Tutto stava andando come da piano. Ora, passare ad una velata richiesta di contatto sarebbe stato relativamente facile. Almeno così credo la vedesse mia madre.

– Ma sono strepitose! – le rispose con tono da femmina fru fru quale non era. – Quindi Lei è la Signora V.F., che sta per?

– Ah, no signora mia – ribatté la signorotta – Quelle iniziali hanno una storia ben più avvincente! Esse rappresentano le prime lettere del nome del mio primo ed unico amore, quello che ho conosciuto una sera in riva al Grande Lago di ben 40 anni fa e che da allora porto nel cuore…

A quelle parole, mia madre per poco non scoppiò a ridere in faccia al suo contatto ben prima di aver ottenuto la conferma che tanto cercava. Io però non riuscii a fare altrettanto e non trattenni le risate, che però tentai subito di travestire da colpo di tosse. 

Non bastò. 

La signorotta, sentendosi umiliata, sbottò in un rimprovero verso mia madre, dicendole che non è così che si educano i propri figli, che bisogna indicare loro la strada del rispetto verso gente più grande e distinta di loro, che ridere in faccia ad una rispettabile signora è sgarbato e imperdonabile. 

Non so cosa trattenne mia madre dal rispondere a tono alla lezione di buona educazione che le stava impartendo la sua grottesca interlocutrice. Quello che so è che al posto di una reazione forte e ferma – quella che mi sarei aspettata da lei – mia madre reagì alle parole della signorotta con una risata di pancia, sincera e inarrestabile, accantonando così ogni sua speranza di portare a termine il suo piano. 

La signora in tailleur blu e oro, incapace di replicare a tutta quella genuinità, offesa si alzò sulle punte, girò i tacchi e se ne andò in direzione delle sue amiche che già da un pezzo che la avevano abbandonata. 

Io e mia madre ci guardammo con ancora le lacrime agli occhi e il sorriso stampato in faccia. In quel momento capii ……….

 

Ho deciso di non rendere visibile su smartphone l’inizio di questa mia opera incompiuta.

Già leggere qualcosa su uno schermo digitale non è il massimo. Figuriamoci sullo schermo di uno smartphone…

Se perciò sei curioso di sapere come inizia il mio romanzo, apri la pagina sul tuo pc o sul tuo tablet.

Grazie per la comprensione!