l’evento della verità
Trattato sull’esperienza della Verità a fondamento di ogni vero
argomentazione (cenni)
La finalità dell’opera sarebbe stata la risoluzione del millenario problema filosofico della conciliazione tra sapere universale e “sapere” particolare.
Per fare questo, il percorso di pensiero che avrei intrapreso avrebbe avuto come suo oggetto-meta la Verità e come suo ambito d’indagine l’uomo in quanto istanza grazie alla quale la Verità si manifesta.
Seguendo i sentieri tracciati da Martin Heidegger durante gli anni Trenta del secolo scorso, dopo una disanima preliminare di come la Verità è stata pensata dalla metafisica occidentale, avrei operato una trasfigurazione di tale concetto, mostrando che le caratteristiche concettuali della “Verità” metafisicamente intesa trovano la loro condizione di possibilità in una Verità di altro tipo.
La mia argomentazione avrebbe trovato sostegno principalmente nelle riflessioni contenute nei Contributi alla Filosofia (dall’evento), opera tra le più enigmatiche di Heidegger, nella quale il grande filosofo tedesco tenta quella che ho appena chiamato “trasfigurazione” del concetto di Verità; Verità non più da considerarsi come ente concettuale di ragione, ma piuttosto come Evento concreto che può realizzarsi solo per il tramite dell’esistenza umana “autenticamente” vissuta.
Facendo mia la ri-voluzione nel domandare operata da Heidegger, avrei spostato il focus dell’argomentazione dal chiedere dell’essenza della Verità al chiedere della verità dell’essenza e, così facendo, sarei arrivato a mostrare che anche il sapere metafisico non è che un qualcosa di derivato che deve la sua possibilità d’essere ad un’istanza esistenziale, creativa e “originante”, la cui funzione è quella di per-mettere il rapporto tra essenza ed esistenza. Questa istanza – che qui, approssimando, rintraccio, appunto, nell’essere umano autenticamente ek-sistente – si sarebbe di-mostrata come quella “scintilla” capace di illuminare l’Evento della Verità dell’Essere.
Più fondata e concreta della “Verità” intellettiva universale dell’adequatio rei et intellectus, più profonda e comprensiva della “verità” particolare dell’esperienza sensibile, la Verità che avrei delineato in questa opera si sarebbe perciò rivelata il sostegno fondamentale tanto del sapere universale quanto di quello sensibile-particolare; una Verità cioè, che, una volta attualizzata per il tramite di un’Esperienza unica e singolare, non avrebbe intaccato la valenza universale dell’esperienza stessa, anzi avrebbe fatto emergere, in chi fosse stato in grado di renderla attuale, una comprensione nuova di ciò che l’Essere è, al contempo inducendo in lui quel senso di appartenenza con-partecipativa al Grande Mistero dell’Esistere nel quale tutti noi, spesso senza accorgercene, costantemente siamo immersi.
Dai contributi
Mi permetto di riportare l’intero Paragrafo 133, che ritengo centrale, dei Contributi alla Filosofia (spero Adelphi non me ne vorrà…) assieme a 3 popover contenenti alcuni accenni della mia interpretazione di quest’opera di Heidegger.
Chiarisco subito che questi accenni, in quanto, appunto, accenni, molto probabilmente non potranno che essere fraintesi. (Se però qualcuno crede di averne compreso il contenuto, mi farebbe molto piacere che si mettesse in contatto con me…)
Aggiungo poi, tanto per moltiplicare i molto probabili fraintendimenti (o magari per svaporare un po’ dell’ambiguità che producono), che ciò che qui esprimo è frutto non solo della mia conoscenza del pensiero di Martin Heidegger, ma anche dei miei studi approfonditi di filosofia teoretica e del mio fecondo e profondo confronto con le riflessioni sulla metafisica, il linguaggio e il senso comune di Ludwig Wittgenstein.
133. L’essenza dell’Essere
L’Essere ha bisogno dell’uomo per essere essenzialmente e l’uomo appartiene all’Essere per compiere la sua estrema determinazione in quanto esser-ci.
Ma allora l’Essere non viene a dipendere da un altro, se tale aver-bisogno costituisce addirittura la sua essenza e non è solo una conseguenza essenziale?
Ma come possiamo parlare di di-pendenza se questo aver bisogno trasforma appunto ciò di cui ha bisogno nel suo fondamento e soltanto così lo costringe a diventare se stesso.
E, viceversa, come può l’uomo sottomettere l’Essere se deve appunto lasciare la sua perdizione nell’ente per diventare colui che è fatto proprio dall’Essere e che gli appartiene? Questo rimbalzo (Gegenschwung) di aver bisogno e appartenere costituisce l’Essere come evento, e il primo compito speculativo che ci spetta è quello di elevare l’oscillazione (Schwingung) di questo rimbalzo nella semplicità del sapere e di fondarlo nella sua verità.
Dobbiamo d’altra parte rinunciare all’abitudine di voler assicurare questa essenziale permanenza dell’Essere come qualcosa che può essere rappresentato in un modo qualsiasi per chiunque e in ogni tempo.
Raggiungiamo piuttosto l’unicità dell’oscillazione nel suo puro velarsi sempre solo saltandovi dentro, consapevoli di non ottenere in tal modo ciò che è «ultimo», bensì l’essenziale permanenza del silenzio, ciò che più di tutto è finito e unico in quanto sito dell’attimo della grande decisione sulla mancanza e sull’avvento degli dèi e di conquistare solo in ciò il silenzio della guardia per il passar via dell’ultimo Dio.
L’unicità dell’Essere (in quanto evento), l’irrappresentabilità (nessun oggetto), la somma stranezza e l’essenziale velarsi: non sono che indicazioni, seguendo le quali dobbiamo prima di tutto prepararci per presagire, di fronte all’ovvietà dell’Essere, ciò che più di tutto è raro, nella cui apertura noi siamo, anche se il nostro esser uomini il più delle volte opera nel senso del distogliercene.
Quelle indicazioni ci parlano solo se noi per di più sopportiamo la necessità dell’abbandono dell’essere e se affrontiamo la decisione sulla mancanza e l’avvento degli dèi.
In che senso quelle indicazioni provocano lo stato d’animo fondamentale del ritegno e in che senso il ritegno dispone alla docilità rispetto a quelle indicazioni.
Heidegger M., Contributi alla filosofia (dall’evento), Adelphi, Milano 2007, pp.255-256
«L’Essere come Evento» corrisponde qui all’esperienza della Verità estatico-esistenziale di cui parlavo sopra (ne ho parlato anche qui), obiettivo ultimo della mia ricerca. Questa Verità emerge quando uomo ed Essere entrano in un rapporto di vicendevole e reciproca appropriazione, per comprendere il quale non ha più senso stabilire causazioni, dipendenze, successioni logiche o cronologiche tra i termini del rapporto, essendo ciascun termine tanto originante l’altro quanto dall’altro condizionato.
«L’essenziale permanenza dell’Essere», cioè quella che qui sopra ho chiamato “esperienza concreta dell’Evento”, non può essere spiegata attraverso il pensiero metafisico-rappresentativo (cioè, molto sommariamente, considerando tale essenziale permanenza come ente e determinando, al fine di comprenderla, le leggi e le regolarità universali che, apparentemente, la rendono possibile). Tale essenziale permanenza, essendo ap-prensibile solo nell’esperienza concreta, dischiude invece per il pensiero la possibilità di una “logica” alternativa a quella metafisica; una “logica” per cui è proprio dall’Evento concreto e irripetibile dell’Essere che si originano tanto le leggi e le regolarità che permettono il dispiegarsi del senso nel mondo quanto il manifestarsi di ogni aspetto sensibile e contingente in quel mondo stesso.
«Saltandovi dentro» significa che l’esperienza dell’Essere come Evento ha a che fare sempre anche con una decisione piena, consapevolmente voluta e appropriata (sia nel senso attivo che passivo del termine) a ciò che è tale esperienza stessa. Questa decisione deve necessariamente e simultaneamente essere accompagnata da un Atto (il salto, appunto) materiale e simbolico ad un tempo, da un «sacro dire sì» (per dirla con Nietzsche) tramite cui ci si decide a predisporsi in maniera autentica all’Essere, inteso come “il già-da-sempre-predisposto”, e, così, a seguirne, cor-rispondendovi, le “indicazioni”.